lunedì 12 ottobre 2009

Strano amico

Era un amico, se così si può definire, molto particolare. La persona più conformista che si potesse conoscere.
C’incontrammo ad una festa dove nessuno dei due conosceva i padroni di casa e molti degli altri partecipanti. In verità io non conoscevo nessuno in quanto chi mi aveva invitato non era venuto.
Una di quelle feste tipo open house dove la gente di quel tempo portava altra gente e via discorrendo, dove si beveva, si parlava di filosofia, di politica e si rimaneva in silenzio, col bicchiere di plastica in mano, ascoltando quello che aveva la parlantina migliore. Roba da universitari insomma.
Avevo nella mano destra uno spritz che mi aveva preparato una ragazza conosciuta quella sera. A prima vista sembrava carina, una chiacchiera tutta entusiasta, grandi occhi azzurri che ruotavano nelle orbite. Veramente un bel paio d’occhi. Però poi sorrise un po’ troppo di gusto ad una mia battuta. In effetti quella battuta faceva ridere sempre, le ragazze si sganasciavano quando la raccontavo e allora la usavo sempre per fare colpo. Come faceva? Bho ora non me la ricordo più però era un bel cazzo di battuta da far svenire dalle risate. La ragazza, dicevo, si sganasciò pure lei e mi mostrò quello schifo che aveva in bocca. Una roba! Denti piccoli e gengive grandi. Provai anche a superare la cosa ma non ci riuscii. Dovevate vederla. Un mulo. Pensai al poveraccio che l’avrebbe sposata. Pensate al mattino. “buongiorno amore” appena sveglio e guardi la donna che ti sta al fianco. Fortunatamente un ragazzo con gli occhiali e pettinato male pensò bene di chiederle un altro spritz così riuscii a levarmela di torno. Quello spritz del resto faceva pure schifo perché lei, la gengivona, non metteva mai più di un dito di prosecco. Che roba. Solo una con quei denti poteva pensare una cosa del genere.
Ero al tavolo a cercare una bottiglia di prosecco per aggiungerne altre due dita quando sentii per la prima volta la sua voce.
- Assaggi il mio negroni, lo spritz della signorina Annika è buono ma secondo me gli mancano due dita di prosecco.
Ci capimmo subito. Si scusò per non essersi presentato e mettendosi una mano sul petto mi disse che si chiamava Oliver ma tutti lo chiamavano Doc. Anche a me avevano affibbiato un soprannome all’università, ma non glielo dissi. Mi faceva schifo il mio soprannome. Il matto. “Attenti arriva il matto”, “Guarda che occhi”. Lasciavo scie di risatine da ragazze che tenevano al petto libri pieni di porcherie universitarie e ragazzi con vestiti puliti e ben rasati. Non gli chiesi perché lo chiamassero Doc, ovviamente pensai che si fosse già laureato, era sicuramente più vecchio di me quel precisino, ma non glielo chiesi perché non volevo che si entrasse nell’argomento università. In effetti per me quegli anni erano uno schifo. Che roba.
Quando studi lettere e filosofia ti possono capitare due cose. O ti laurei subito e macini esami come una falciatrice il fieno o ti inquieti e dai di matto perché è quella stronza filosofia che ti porta a dare di matto, almeno a me. Però con lui restai sul vago ogni volta che si entrava nell’argomento. “Sì è ok!”, “Sai si studia”, “Shopenhauer è una forza, ma parliamo delle ragazze hai visto quella con le tette rifatte?”. Cambiavo argomento, mi sembrava la cosa più giusta da fare. Uno perché sono fatti miei. Due bho!, insomma non ci deve essere sempre una spiegazione per tutto non vi pare?
Anche lui prima di arrivare là non conosceva nessuno ma dopo una mezz’oretta già dava pacche sulle spalle a Rodrigo e Marcel i due affittuari dell’appartamento e scambiava battute di riferimento con chi incontrava. Quella stessa sera mi disse che, se per me andava bene, ci saremmo rivisti il giorno dopo a casa mia, “ok” gli dissi e tracannai il bicchiere tutto d’un fiato. Che roba quel negroni era proprio buono.

Quel periodo avevo un hobby. I due ragazzi che dividevano l’appartamento con me, un ubriacone che veniva dal Veneto e un romano che puzzava da morire, che schifo dovevate sentire che puzza veniva dalla sua stanza. Una roba. Quei due malati mentali, dicevo, avevano installato una tv satellitare e con una scheda pirata riuscivano a vedere le partite di calcio. Li dovevate vedere. Uno con gli occhi rossi che beveva vino e smadonnava in veneziano e lo sporcone stendeva le gambe coi suoi calzini sudici sul mobiletto. Guardavano ogni tipo di partita. Calcio serie A, Calcio primavera, calcio dilettanti, calcio serie B, C, D e tutto il resto, anche le repliche e le trasmissioni di stupidi sgrammaticati con pochi capelli in testa che mostravano moviole di pallosissime azioni di gioco e scosciate giovani donne. Ogni volta che aprivo i libri sentivo la telecronaca di una stupida partita che m’infastidiva. Mi ero proprio stancato di mettermi seduto, aprire il libro, leggere, ripetere e poi non ricordarmi niente di quello che avevo letto e ripetuto perché in sottofondo sentivo sempre quelle interminabili telecronache con un tale con la voce monocorda e un altro che sbagliava i congiuntivi e rideva istericamente. Chiusi i libri e mi avvicinai ai miei due coinquilini. “Chi gioca?” gli domandai.
Era la replica di una partita di serie A. Non mi chiedete i nomi delle squadre, perché non me li ricordo, ah sì forse una era il Lazio o Firenze..bho! Comunque mi misi dietro ai due e ascoltai i loro commenti, mi divertivo un sacco. I giocatori avevano nomi bellissimi, nomi epici da leggere sui libri di storia, nomi di eroi. Quando un giocatore che aveva un bel nome prendeva palla io chiedevo “E’ un giocatore forte questo?” Il veneziano rispondeva “Uelà!” e il romano ripeteva sempre nello stesso modo ben scandito ed a voce alta il cognome, il nome, due punti “ha militato nella Lodigiani, nel Como,….” Ah Ah, sapeva tutto. Anche i goal che il giocatore aveva realizzato in carriera. Incredibile. Che roba. Da perderci la testa. Poi vedevo che oltre i giocatori delle due squadre c’erano anche altri uomini in campo. Gli chiedevo chi fossero e lui schifato “è l’arbitro Rombon di San Donà esordio in serie A il ..”, pure l’arbitro aveva il nome da eroe. “E gli altri due con la bandiera in mano che corrono come granchi? Come si chiamano?”. Alla mia richiesta strizzò le labbra e scosse la testa. Non sapeva i nomi dei guardalinee. Era fantastico perché, con un cognome idiota come il mio, avrei potuto lo stesso fare il guardalinee. Avevo un hobby dicevo, giusto. No, di questo stupido gioco del pallone me ne dimenticai appena i due ragazzi se ne andarono. In effetti un po‘ mi mancano anche se puzzavano e vomitavano per casa.
CONTINUA

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