venerdì 22 aprile 2011

casa verde di legno ammuffito

Ho i denti bianchissimi. La faccia ben rasata e i capelli curati, anche se dicono che il mio taglio sia troppo fuori moda. Dicono che gli specchi ingrassano, ma il mio corpo qui davanti mi sembra perfetto, forse un po’ troppo bianco e magro, sarei stato esemplare negli anni settanta, senza queste maledette palestre. Che schifo. Principalmente l’odore: nauseabondo; e il sudore che quei porci lasciano sui macchinari.


Mi fanno ridere. Escono dagli uffici o dalle fabbriche, dove per otto o dieci ore al giorno si sono ricoperti di ragnatele, per andare in quei porcili con i loro completini nuovi.

Sudano come lumache, lasciando le loro scie di bava attorno ai macchinari dove le ragazze coi pantaloncini infilati nel culo camminano e controllano dallo specchio chi le sta guardando.

Probabilmente ci usciranno pure con quelle svergognate, sai che serate! Le porteranno in pizzerie, dove fanno vedere l’anticipo del campionato di calcio, facendo finta di ascoltarle mentre quelle oche vomitano stupidaggini sulle loro amiche zoccolette, poi finire la serata in qualche stradina di campagna a farsi pulire il pennello, mentre per l’abitacolo si diffondono le voci dei giornalisti del post partita.

Li detesto, detesto quei profili sulle vetrine del corso, detesto i loro aperitivi, i loro saluti falsi le loro conversazioni inutili.

Dal primo superiore, da quei due che facevano sempre i simpatici, quello con i capelli come una tettoia e quello grasso col sorrisetto idiota. Non lasciavano mai respirare i miei compagni, li avevano battezzati tutti: il Neandertaliano a quello più brutto della classe, lo Storto ad uno che aveva una gamba più corta dell’altra, il Grezzo a quello che i suoi genitori non gli avevano insegnato a parlare per bene l’italiano.

Quei due buffoni ci avevano provato una volta anche con me. Iniziarono una mattina, ridacchiando tra di loro. Le risatele diventarono occhiate. Si giravano e con i loro sorrisi malefici mi squadravano. Poi iniziarono a pronunciare la parola che le loro menti geniali avevano partorito: “Matto”.

Andai verso la cattedra chiamato dalla professoressa Lorenzi per l’interrogazione di chimica e mentre passai di fianco ai loro banchi sentii: “matto” e le loro risatine. Risero anche gli altri, probabilmente per il sollievo che fosse toccato ad un altro. Certo.

Come poteva far ridere un soprannome così idiota? Solo due stupidi che in seguito diventarono uno avvocato e l’altro assessore comunale avrebbero potuto generare un soprannome di così mediocre creatività.

La Lorenzi mi fece le sue domande, conoscevo benissimo le risposte ma le parole che scorrevano nella mia testa erano ben diverse. Avevo i titoli di testa di un film horror. I protagonisti: i due imbecilli. Finivano male, molto male.

Durante la ricreazione andai davanti alla faccia di quello coi capelli a tettoia - il futuro avvocato - lo guardai negli occhi e lui ridendo e cercando l’approvazione degli altri cominciò a gridacchiare: “matto qua qua qua” “sono matto, qui quo qua” o altre scempiaggini, non mi ricordo bene. Mi ricordo benissimo il rumore che fece la matita quando gliela infilai sulla guancia, come una martellata sulla sabbia. Bellissimo, una liberazione. I suo occhi sbarrati, le lacrime, la sua faccia diventare bordeaux.

Abbassai le palpebre ascoltando una musica celestiale nella testa.

Non si ribellò, né cercò aiuto, si accasciò per terra come una preda ferita. Il suo corpo e i suoi occhi mi chiedevano di finirlo, Dio, quando avrei voluto farlo!

Un “incidente” dissero a scuola. Un altro modo di evitare le rogne a patto che io non tornassi più in quella classe e che mi facessi seguire da uno psichiatra. I miei non pronunciarono mai quel nome, mi dicevano: “andiamo del signor Benatti” neanche dottore lo chiamavano, che strani, chissà di cosa avevano paura, il matto ero io, mica loro.

Lo psichiatra era divertente. Io lo fissavo di continuo e lui si agitava e mi prescriveva le pillole. A casa i miei si vergognavano di darmele e me le lasciavano sul comodino della mia camera, assieme ad un bicchiere d’acqua e qualche caramella. Mangiavo le caramelle, bevevo l’acqua e mettevo le pillole dentro le scarpe. Non durò molto. Benatti vedendo che lo fissavo sempre e che non riusciva a trasformami in un zombie disse ai miei che le pillole dovevano darmele per forza. E così fecero.

E questi sono gli unici ricordi nitidi che ho della mia adolescenza. Uno schifo verrebbe da dire. Un schifo di nebbia in effetti. La vita che una persona conosce cessa di esistere e tutto diventa un’appannata continua ripetizione di un paesaggio desolato, grigio, immobile. Come un sogno ripetitivo, nei momenti di stallo, come li chiamo io, mi sembra di avanzare lentamente verso una casa di legno ammuffito e verde ma non riesco a raggiunge niente, non riesco ad entrare, posso solo girare attorno al portico, al giardino pieno di ferri vecchi, non somiglia nemmeno alla casa dove sono nato, agli istituti in cui sono stato. Poi le immagini aumentano il contrasto e riprendono i colori.

Come adesso che mi ritrovo qui, senza nemmeno perché. Senza sapere dove sono e chi mi ci ha portato. A guardarmi nello specchio di un armadio, sempre nudo con la bocca spalancata ammirando i miei denti, lisciandomi i capelli, facendo scorrere una mano in mezzo alle mie gambe e girare per l’appartamento in cerca di un coltello, trovarlo e ritornare davanti allo specchio dell’armadio.

“Perché vuoi farlo?” inizio a gridare. Il cuore lo sento da tutte le parti del mio corpo. I muscoli si contraggono. La pelle butta fuori sudore. Poi il fastidio di sentire sempre quei mugugni, quei lamenti.

Non ne posso più dei loro pianti e allora apro l’armadio e li vedo lì, legati, imbavagliati. Li prendo per i capelli e li trascino fuori. Volevano ridere di me, ma anche stavolta non ce l’ha fatta. Torneranno di nuovo ne sono certo. Per ora però ho vinto io. Infilando il coltello dentro la bocca del mio compagno di classe sento ancora il rumore del martello nella sabbia e provo lo stesso piacere della prima volta e il paesaggio della casa di legno diventa più nitido e riesco addirittura ad entrare. Vedo una donna che sta lavando i piatti mentre canta una canzone. È troppo bella, magnifica quella voce, quel collo pieno di raggi di sole. L’ho già sentita quella canzone, ma non mi ricordo dove. Non riesco nemmeno a sentirla mai tutta. Parla di uno che va da un santo e gli fa domande su cosa rimane della vita, il santo senza dirgli niente apre il palmo della sua mano e mostra un piccolissimo diamante e piccole gocce di sangue che escono dalle ferite. Senza sentire la voce l’uomo riesce a sentire che la vita la deve aspettare uscire dalle spighe di grano e che le nuvole non restano sole. La prima volta che l’ho sentita ho capito che non era stata mai scritta e che sarei stato io a doverla finire.

Esco dall’appartamento mettendo i suoi abiti e mi ritrovo per strada, una volta vestito da donna, un’altra con la giacca e la cravatta a cercare di nuovo la mia ispirazione.

2 commenti:

Anonimo ha detto...

Un testo emozionante,che prende il lettore dalla prima all'ultima riga. Bellissimo,sempre,leggerti.
Gighemy

Rita ha detto...

Bello!
Coinvolgente.
Mi piace anche l'inizio dissonante rispetto al resto, quell'inizio che sembra un po' il solito discorso di critica verso la società omologata ed assente a sé stessa, e che invece finisce per virare introspettivamente aprendo uno squarcio su un vissuto di dolore.