martedì 14 ottobre 2008

Chiudi gli occhi

Ragioneria 7, Matematica 6, Tecnica Commerciale 8, Inglese 8, Francese 6, Condotta 9, Diritto 7, Finanze 7, Italiano 5…non è possibile! in 3 anni di superiori non ero mai stato rimandato in nessuna materia, addirittura le materie letterarie erano le mie preferite, e adesso questo supplente, arrivato dopo il primo semestre, senza mai interrogarmi, mi rimanda a settembre. Professor Santi, Agostino, eccolo il nome del pagliaccio! Aveva sostituito la professoressa Belli dopo che era andata in maternità. Ricordo perfettamente il suo primo giorno, entrò in classe nel silenzio più profondo e si mise a guardare fuori dalla finestra, fumando una sigaretta. Martina Reali, la secchiona, gli fece subito notare che in classe non si poteva fumare, mentre Morelli cercava di aspirare il fumo che non usciva all’esterno. Il Professore la guardò un attimo e si voltò di nuovo verso la finestra, per continuare le sue boccate. Dopo 5 minuti, il silenzio si trasformò in lieve brusio, poi in chiasso, con i primi pezzetti di carta che volavano e infine la baraonda con studenti che si rincorrevano tra i banchi, altri che telefonavano con il cellulare e facevano le foto al professore e le inviavano come mms agli amici, altri che lo prendevano in giro e lo chiamavano “A Celentano!”. Dopo che ebbe buttato la sigaretta, tra il disgusto della Reali e lo sdegno del Morelli, per l’occasione persa di aspirare un po’ di tabacco, il professore si voltò verso la classe “Un uomo è sé stesso nella certezza di non essere mai scoperto”. “Voi senza controllo avete dimostrato ciò che siete, io non voglio controllarvi, voglio che siate sempre voi stessi”. Rocchi dall’ultimo banco si alzò in piedi e gridò: “Sì!”. Il professore prese un libro e iniziò la lezione. Mi decisi di andare a parlare con lui, chiedendo spiegazioni perché, di tutta quella classe di animali, che non aprivano mai i libri, avesse rimandato solo me. Andai in sala professori per cercarlo e chiesi informazioni alla signorina Lorenzi la prof. di Steno. Lei era una donna sulla quarantina, con i capelli lisci e biondi a caschetto, gli occhi chiari e le labbra sottili e ben curate, adoravo le sue mani, quando tenevano tra le dita il gesso e scriveva i suoi geroglifici alla lavagna. Non ho mai capito niente di Steno, ma adoravo la sua ora di lezione e alla fine di essa, quando se ne era andata, andavo alla cattedra ad annusare il profumo che aveva lasciato sulla sedia. Il professore di Calcolo le faceva sempre battute insopportabili che mi facevano rabbrividire, era uno che piaceva a tutte le altre insegnanti, ma a lei no, lei non lo degnava. Il professore di Calcolo era un idiota. “Mi scusi signorina ha visto il professor Santi oggi?” “No Fanti, non ho visto Agostino” e sospirò, quel sospiro, i suoi occhi mentre le pronunciavo quel nome, erano uguali a tutte le volte che i due si incrociavano quando lui usciva dalla mia classe e quando lei entrava, il sabato tra la 4 e la 5 ora. Lei lo amava, e io lo odiavo ancora di più. Le chiesi se sapeva dove abitasse e lei mi disse che viveva in una casa appena fuori le mura della città, vicino al Tevere davanti al bar del mattatoio. Ingoiai saliva per quanto fu precisa, e arrossii. Scesi dal motorino, vidi la sua auto, una vecchia Lancia tutta scassata, parcheggiata sotto quella che doveva essere la sua casa. La porta era aperta, suonai il campanello, attesi, ma non ricevetti risposta, decisi di entrare, udii il suono di una chitarra, percorsi il corridoio superando la sala da pranzo e la cucina disposte dai lati opposti dello stesso, arrivai ad un’altra sala dove di spalle c’era un uomo che suonava, era il professore con gli occhi chiusi, ad ogni accordo si succhiava le labbra come se provasse realmente piacere, sul tavolo un foglio con un testo pieno di correzioni, una sigaretta incenerita ancora fumante e un bicchiere di vino rosso accanto alla bottiglia mezza vuota. Il professore si accorse di me dopo alcuni minuti, quando smise di suonare e riaprì gli occhi, non fu sorpreso di vedermi, anzi mi disse: “ti stavo aspettando” e mi sorrise, gli feci una smorfia con gli occhi quasi di rimprovero e gli chiesi solo “Perché?”. Si alzò dalla poltrona, mi chiese “hai mai visto Cuba?” “sono giovane, non ci sono mai stato”, risposi, “Non ci hai mai guardato” disse lui, “Ci sono posti in cui non andremo mai, ma non per questo non possiamo vederli, tu non dovevi andare in quella scuola, sei portato per le materie letterarie, non saresti felice dietro una scrivania, comunque da domattina iniziamo le lezioni, vieni qui alle 7”. Risalii sul motorino e non seppi se essere contento per quello che mi aveva detto o essere ancora più arrabbiato con lui. Non ha una faccia che permette rancore, i suoi occhi semichiusi, le sue labbra disegnate con un sorriso perenne ma un po’ triste, era un uomo che ispirava più tenerezza che rancore nella gente, possiamo dire che tutta la scuola lo rispettava, a parte il preside Zito, che lo odiava e non vedeva l’ora di trovare una scusa per sbatterlo fuori. Confesso che appena appresa la notizia dalla mia bocciatura, avevo avuto l’intenzione di andare da lui e spiattellargli tutto sui suoi metodi bislacchi di insegnamento, ma ora no, era un uomo così calmo che mi aveva incuriosito. La mattina alle 7:00 mi presentai a casa sua, lo vidi in garage armeggiare con dei bastoni e del filo trasparente, “Sei pronto?” mi disse “Sali! dai che sennò facciamo tardi!”, lasciai cadere il motorino e montai in auto con lui, prese la strada per Montemaggiore, poi lasciò la provinciale per infilarsi in una stradina in mezzo ai campi di grano, arrivammo ad una quercia e fermò la macchina, scese e aprì il cofano posteriore, non capii dove mi stava portando a fare lezione, dal cofano tirò fuori le canne da pesca e uno zaino, si accese una sigaretta e mi disse “Vieni!” , lo seguii senza fiatare, arrivammo davanti al gorgo di un rivo in mezzo alla macchia. Tirò fuori le canne, mise le esche e fece il primo lancio, sorrise come un bambino, quando il galleggiante atterrò proprio dove voleva lui. Dopo un ora di pesca mi azzardai a domandare “Professore ho portato i libri, quando facciamo lezione?” “Quando avrai preso il primo pesce” mi rispose. Continuammo ad andare a pescare per tutta la settimana. Il lunedì seguente presi il mio primo pesce. Mi disse: “Chiudi gli occhi” li chiusi, “Dimmi che cosa vedi”, io incredulo “Se ho gli occhi chiusi non vedo niente!”, si girò verso il gorgo e continuò a pescare. Altre volte durante le nostre lezioni mi recitava i versi di un poeta cubano di nome Santiago alcuni erano molto belli: “leggeri come un falco dobbiamo cercare la vita che corre tra l’erba e volare in picchiata su essa per prenderla e portarla dove vogliamo noi” “Non riuscirai a vedere niente finché guarderai solo con i tuoi occhi usa le mani, usa il cuore, vedono meglio di te fatti dire da loro, impara a parlare con loro.” “Il mare è stanco di raccontarci favole siamo solo uomini che non ascoltano, siamo conchiglie vuote, inutili pensieri, movimenti di carne e flussi di sangue.” Santiago Spesso, dopo la pesca, rimanevo a pranzo a casa sua, sapeva cucinare molto bene, apparecchiava per tre persone anche se eravamo solo in due, io finivo di mangiare, lui beveva solo due bicchieri di vino, poi mi faceva l’occhiolino e mi diceva di andare, l’ultima volta che pranzai a casa sua, vidi la macchina della signorina Lorenzi arrivare. Il giorno dell’esame, ero andato nell’aula indicata dal foglio appeso in bacheca, ero l’unico quel giorno, mi sentivo felice per questo. Arrivò il professore e mi strinse la mano, insieme a lui c’era il preside. Si sedette sul banco affianco al mio, il preside che rimase in piedi dietro al professore disse: “Allora professore! la vogliamo iniziare questa interrogazione?” , “Comandi” rispose il professor Santi, “Non faccia lo spiritoso e inizi che è meglio” ribatté duramente il preside. Il professore mi disse: ”Dimmi che cosa vedi”, vidi le braccia del preside spalancarsi e sbattere contro le gambe mentre stavo chiudendo i miei occhi. Non rividi più il professore in quella scuola, se ne andò pure di casa, e non ebbi più sue notizie. Dieci anni dopo, ancora il primo giorno di scuola, ricevetti una cartolina da Cuba con scritto “Non riuscirai a vedere niente finché guarderai solo con i tuoi occhi” firmato Santiago e un ciao scritto in stenografia. Mi voltai verso la classe e dissi: “Un uomo è sé stesso nella certezza di non essere mai scoperto”, “Voi senza controllo avete dimostrato ciò che siete, io non voglio controllarvi, voglio che siate sempre voi stessi”, ”Adesso, chiudete gli occhi”.

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