Mi trovo dopo tanto tempo davanti a Romeo, uno dei miei amici d’infanzia e non so cosa dire. Perciò ricorderò con lui il periodo e, più in particolare, il giorno che cambiò le nostre vite.
Romeo era fatto di burro, o meglio, sua madre diceva che lui e i suoi amici, cioè noi, non valevamo niente, sapevamo solo lamentarci, stare a letto col termometro in bocca a fare la lagna. Sua madre, la Doris, a letto non ci stava mai. Quando aveva la febbre, pure se era inverno, usciva di casa con le maniche corte per tagliare la legna. Aveva mille acciacchi ed era piena di problemi di salute.
Il padre di Romeo per portarla al controllo dal medico la doveva trascinare di forza fuori di casa, infilare in auto e chiuderla dentro con la sicura. Pure i finestrini non poteva abbassare, altrimenti sarebbe saltata fuori di sicuro. La Doris col dottore non ci parlava. Entrava nel suo studio, sputava per terra e ghignava ad ogni suo rimprovero. “Doris le medicine, le devi prendere” e lei gli mostrava i denti, “devi smettere di bere, ha la pressione alta, un cuore debole, ti serve un pacemaker”. Sveniva due o tre volte al giorno, anzi no, non sveniva, per quelle due o tre volte al giorno moriva. Romeo si metteva le mani davanti alla faccia e suo padre chiamava la Croce Rossa. Quando l’ambulanza arrivava, gli infermieri e il dottore trovavano la vecchia Doris in cucina che preparava l’impasto per la torta salata con una bottiglia di birra vuota sopra la tavola.
Sua madre diceva che Romeo era fatto di burro, io che era fatto di soldi. Non gliene vedevamo mai tirare fuori uno dalle tasche, neanche un centesimo. Servono per le medicine di mia madre, diceva. Cazzate, la vecchia le medicine le dava ai polli. Avevamo sedici anni e non avevamo mai niente da fare, perciò passavamo i pomeriggi fuori dalla bottega di Paolo il matto a pensare a qualcosa, mentre i nostri vecchi tornavano dai loro lavori e si riempivano di “oppio dei poveri”. Mio padre, per esempio, tornava a casa dalla fabbrica alle cinque e un quarto. Entrava in casa senza neanche salutare, andava in cucina, apriva il frigo e prendeva una bottiglia da zero sessantasei. La stappava e si lasciava crollare, ad ogni sorso, sempre più all’interno della gommapiuma. Per gli altri genitori era più o meno lo stesso. Tutti con i loro lavori massacranti e le loro giornate di merda, finché non arrivava la benedetta sera per potersi rilassare e intorpidire l’anima dalla birra.
Prima eravamo in tre: io, Romeo e Gigino Mazzagatti. Poi, un giorno, arrivò una ragazza, magra, coi capelli castani chiari e gli occhi del colore dei parabrezza controsole. Portava una canottiera chiara e i pantaloncini di jeans. Si avvicinò a noi, seduti sulle nostre biciclette, e rimase lì senza dirci niente. Incominciò a seguirci.
Le prime volte che ci vedemmo non parlò, forse per un mese. Poi un pomeriggio Gigino disse: “A casa mi hanno portato due criceti, che ne dite?” e lei per la prima volta ci parlò: “Andiamo a bere birra”. “Come ti chiami”, le chiesi, “Bodanka”, mi rispose. Decidemmo di anticipare i tempi: iniziammo a bere birra tutti i pomeriggi. Arrivammo alla conclusione che non vale la pena di spaccarsi il culo per arrivare ad un’età dove i rimpianti ti avranno mangiato il fegato e seccato il cuore.
Fu una svolta. La prima volta andammo a casa mia. Noi tre, i maschi, ci sedemmo sul divano e lei andò al frigo, la guardammo chinarsi in avanti, aprire lo sportello e prendere le birre. Avevamo le bocche aperte. Stappava le birre e ce ne dava una per uno. Mi prese una strana voglia quel giorno. Andai in camera di mio fratello e tornai con una scarpa da ginnastica. Tirai fuori una bustina e la mostrai ai miei amici. “Qualcuno di voi sa come si fa?”, Bodanka alzò la mano.
Rimase seduta, strinse le cosce e vi sistemò la bustina. L’aprì. In una mano posizionò l’erba e con l’altra prese una cartina. Fece proprio un bel lavoro. La fumammo tutti, fui felice perché la vedevo sorridere di gusto. Mi chiese di usare il bagno. L’accompagnai. Quando entrò prese la mia mano e mi tirò dentro. Avevo i suoi occhi a due centimetri dai miei e mi sembrava che bruciasse ogni punto della mia carne che guardavano. Non avevo mai baciato una ragazza. Socchiuse gli occhi e aprì leggermente le labbra. Tremai e indietreggiai, attaccandomi alla porta del bagno. Con la mano riuscii ad afferrare la maniglia e dicendole “fai pure con comodo” uscii, incapace di guardarla in faccia e pentendomi subito per quello che avevo fatto. Tornai in sala dagli altri. Erano rimasti seduti, congelati. Solo le teste dondolavano un po’. Gli sguardi puntati sul nulla. Sentii Bodanka uscire dal bagno, volevo riprendermi dalla figuraccia. Le andai incontro sorridendo. Evitò il mio sguardo. Si mise a sedere vicino a Romeo. Lui dondolava la testa e lei lo abbracciava, sempre più stretto. Poi lo baciò sulle guance. Andai al frigo e presi altre birre. Una lattina per uno. Così si staccò da quel parassita. Si fece quasi ora di cena e se ne andarono. Li osservai dalla finestra, Gigino davanti e Romeo e Bodanka dietro. Dovevo assolutamente rimediare.
Il giorno dopo, seduti sulle nostre bici, aspettavamo Bodanka davanti alla bottega di Paolo il matto. La osservammo sistemare i capelli dietro le orecchie prima di attraversare la strada con un rapido, quanto delizioso, scatto di corsa. Aveva messo un vestitino rosso a fiorellini con i bordi ricamati. “Andiamo a casa tua?” mi chiese. “Da me non si può, c’è il mio vecchio a casa in mutua”, avevo messo in atto la prima parte del piano per mettere in ridicolo quell’inutile ameba di Romeo. “Ho portato l’erba però, che ne dici Romeo se andiamo a casa tua?”, con quella svitata di sua madre sai che figura di merda che gli farà fare, pensai. Bodanka gli strinse l’avambraccio e gli sorrise ansiosa. Sai la vecchia Doris che numeri che tirerà fuori, pensai. Romeo mosse la testa in avanti come un piccione e, dopo aver fatto salire Bodanka sulla canna della sua bici, diede una pedalata incerta. Incerta, per il peso che la sua forza di uomo fatto di burro poteva sorreggere; certa, per la figura di merda con sua madre, davanti alla sua nuova ragazza che lo aspettava.
La Doris sembrava una guardia svizzera davanti alla porta di casa.
“Mamma, che fai qui?” le chiese Romeo. “Devono chiamare per i risultati degli esami” rispose, tenendo le braccia conserte e il mento alto.
“Ma se suona il telefono come fa a rispondere?” le chiese Bodanka. La Doris la squadrò dagli occhi fino alle ginocchia. Già cominciavo a pregustarmi l’amara figuraccia per Romeo.
“E tu?” chiese a Bodanka. “Cosa?” rispose la ragazza.
Doris ci squadrò uno per uno. Passò dal viso di Gigino, ancora seduto sulla bici e con le braccia appoggiate al manubrio, a me che subito abbassai lo sguardo. Finì per atterrare in mezzo agli occhi azzurri di Bodanka. Ecco, quello che stavo aspettando. Doris avrebbe detto sicuramente qualche cosa di offensivo e spiacevole nei confronti della nostra nuova amica che sarebbe stata costretta a cambiare il suo punto di vista su Romeo.
Mentre la vecchia stava per spalancare le fauci, Romeo gridò: “Mamma, il telefono!”. “Io non mi muovo” rispose la Doris.
Rimase là, ancora, con le braccia conserte e il mento alto a sfidare il cielo. Romeo corse in casa a rispondere al telefono. Ne uscì, qualche minuto dopo, singhiozzando. “Femminuccia!”, esclamò sua madre che subito scrollò la testa e rientrò in casa.
Andammo vicino a Romeo. Bodanka gli si attaccò alla spalla. “Grave?”, gli chiesi. Annuì rapidamente tirando su col naso. “Che si fa?”, chiese Gigino. Nessuno gli rispose. La Doris uscì di casa con una valigia in mano. Si fermò davanti al figlio e gli disse: “Stai attento a tuo padre, beve troppo”. Romeo strinse gli occhi, non ebbe la forza di rispondere. “E voi, che intenzioni avete di fare con le vostre vite?”. Nessuno provò a risponderle. Romeo le chiese: “Che fai con la valigia?”.
“Africa, pelandrone!” gli rispose, e dondolando sui tacchi si avviò verso la strada.
Le parole della madre di Romeo furono lame di ghiaccio che s’infilarono nelle nostre gole. Provammo vergogna per noi stessi, per le nostre vite, per i nostri genitori, per le biciclette, la terra che calpestavamo, i sassi che scalciavamo. Da lì in avanti ci sentimmo in obbligo di cambiare le nostre vite. Gigino fu il primo a proporre qualcosa: “Rapiamo i cani dei ricchi e chiediamo il riscatto”. Guardai gli altri due. Romeo stringeva i pugni e singhiozzava, Bodanka stava con lo sguardo basso e ogni tanto si metteva una ciocca di capelli dietro l’orecchio. La proposta di Gigino non li aveva entusiasmati. “Scappiamo”, dissi. Sentii la loro attenzione diventare corrente elettrica che mi stava avvolgendo. “In Africa?” chiese Romeo. “Ovunque”, risposi, “l’importante è che ce ne andiamo da qui, non voglio finire come il mio vecchio”. “Neanche io”, mi disse Romeo, asciugandosi le lacrime coi polsi. “Prendiamo gli zaini e andiamo alla stazione”, fece Bodanka. Gigino alzò le spalle, fece una smorfia e ci seguì.
L’appuntamento era al negozio di Paolo il matto per prendere un po’ di roba per il viaggio. Riempimmo gli zaini di lattine di birra. Da mangiare prendemmo qualche snack dolce e un pacchetto di patatine. Uscimmo dal negozio. Faceva proprio schifo, saranno stati vent’ anni che non si degnava di dargli una sistemata. Gigino era accovacciato a terra, sul marciapiede a punzecchiare un gatto morto. “Lo hai ammazzato tu?”, gli domandai. Gigino lo prese per la testa e parlò come fanno i ventriloqui: “Sono stato investito dall’auto di uno stronzo”, mi rispose muovendo la testa del povero micio. “Cammina idiota, e se hai intenzione di mangiare le patatine, lavati le mani prima”.
Ci incamminammo. Oltrepassammo il bar del nostro quartiere, dove non ci volevano perché eravamo troppo giovani; i giardinetti, dove le madri con le carrozzine non ci volevano perché eravamo troppo grandi e davamo fastidio col pallone e con le grida ai loro marmocchi.
Ci lasciammo dietro le spalle, quel quartiere e quella gente che non ci voleva e, come superammo il ponte del Tevere ci sentimmo subito meglio. Avevo pure smesso di controllare Bodanka e Romeo, l’incontro con la Doris doveva aver funzionato, i due non si abbracciavano più e non stavano più sempre attaccati.
Arrivammo alla stazione. Non c’era molto da scegliere, c’era una sola direzione che portava da qualche parte: “Perugia”. Feci i biglietti per tutti e salimmo in treno. C’era poca gente perciò trovammo posto tutti e quattro vicini. “Da Perugia, io direi, di prendere per Ancona”, dissi, aprendo la prima lattina di birra. “E dopo?”, chiese Bodanka. “Andiamo verso sud”, propose Romeo. “Perché no? Andiamo dove ci pare”, e allungai le gambe in mezzo a quelle di Bodanka seduta di fronte a me. Cominciammo a bere una lattina dopo l’altra. E ad ogni fermata il vagone si riempiva di gente. Persone di colore, anziane con i fazzoletti in testa, studenti con cartelline plastificate piene di squadre, righe e album da disegno. Tutti ci guardavano male. “Che avete da guardare?”, chiese ai curiosi Bodanka, non riuscendo a frenare una risata che le fece venire la tosse. Un’anziana ci venne a parlare: “Non siete troppo giovani per bere così tanto?”, ci chiese. “Non sono cazzi tuoi!”, le rispose la nostra amica. “Miao, miao!”, Gigino cominciò a miagolare davanti alla faccia della signora. “Che ti prende ragazzo? Non sei normale? Vedete poi come vi riducete a bere così tanto!”, ci disse. Gigino prese lo zaino e tirò fuori il gatto morto che aveva raccattato per strada senza farsi vedere da noi e lo attaccò alla faccia dell’anziana. La povera donna gridò e abbassò la testa cercando di divincolarsi, e una volta che ci riuscì si allontanò e uscì dal nostro vagone. Così fecero quasi tutti gli altri e noi quattro, e il gatto che Gigino tratteneva in grembo come un pargolo, potemmo continuare tranquillamente la nostra fuga.
Quel giorno la vecchia Doris ci aveva palesemente detto di andarcene da qual quartiere, da quella città, di vedere il mondo, di vivere le nostre vite. Noi avevamo preso quel suggerimento come una guerra da combattere, una guerra col passato con le nostre radici più profonde, con i nostri genitori. Quel giorno sbagliammo tutto, facemmo solo un grande casino, ci ritrovarono infatti ubriachi e affamati dopo Pescara a dormire nel bar di una stazione ferroviaria. Quel giorno i nostri genitori ci riportarono a casa, fummo quasi felici di riabbracciarli, ma dentro di noi ci facemmo la promessa di ripartire, di fuggire al momento giusto, una volta per tutte. Anche a costo di non rivedersi più. E infatti lo facemmo, tutti, anzi no. Romeo rimase nel quartiere e, come gli altri, iniziò a lavorare in fabbrica e a bere tutte le sere.
Oggi, dopo quasi venti anni, abbiamo l’occasione di stare di nuovo tutti e quattro assieme nel vecchio quartiere. Gigino si è lasciato crescere la barba e si fa chiamare Dottor De Santi, è diventato un politico e si è sposato con Bodanka. Lei è sempre bella, anche vestita con l’abito scuro. C’è anche Romeo, o meglio, è per lui che siamo qui. Ora non lo possiamo più vedere. Sul cemento fresco hanno messo un foglio di carta con il suo nome e due date, non era ancora pronta la lapide. Anche lui, a suo modo, ha deciso di partire, di lasciare il quartiere. Una sera, ha aperto la finestra e ha spiccato il volo, certo che non sarebbe più tornato.
Mentre il prete dà l’ultima benedizione con l’acqua santa e i muratori risistemano gli attrezzi, sento una voce che mi elettrifica le spalle e la nuca: “Lo avevo sempre detto che era fatto di burro”.